LES OGRES: GLI ORCHI DEL DAVAI THEATRE

Se ti piace Cechov,
potrai sempre cavartela nella vita.
Vivere, lavorare, essere felici e cercare la bellezza…
La vita sta in questo, non nei soldi
Ariane Mnouchkine, fondatore del Théâtre du Soleil
Leggendo non vi scandalizzate
meglio è scrivere di risa che di pianti
chè ridere soprattutto è cosa umana
Rabelais
Il cinema è un turbine, che ci porta in una danza.
non avrete mica intenzione di starvene tranquilli in poltrona…
No, qui ci si agita, si partecipa, ci si lascia invadere
e si frantumano le convenzioni sociali
Léa Fehner
I fan del cinema congelato e gli abbonati alle sale col velluto rosso
lo troveranno troppo esuberante, troppo urlato, troppo partigiano, troppo generoso
e noi li compiangiamo perchè sono già morti
mentre Léa Fehner è viva. Applausi.
Jerome Garcin, critico cinematografico del Nouvel Observateur
L’arte e(è) la vita su un palcoscenico on the road senza distinzione tra scena e retroscena, in bilico tra Rabelais e Checov. Ecco a voi gli orchi del Davai Theatre: amori, tradimenti, bimbi ed animali che scorrazzano liberi, sontuosi costumi, sbronze e scazzottate… “e soffi pure la tempesta che io cavalco il tramonto!” Miglior film al Festival di Cabourg, ha vinto il premio del pubblico e della critica al 52° Festival di Pesaro con la seguente motivazione: “Per raccontare con efficacia le molteplici sfumature della vita, che prendono forma nella rappresentazione di un variopinto microcosmo; per la sua narrazione acrobatica e dinamica che avvolge lo spettatore in un girotondo di note, colori ed emozioni; per l’incisività dei dialoghi che restituiscono la malinconia dell’esistenza; per farsi specchio sognante dell’essenza artistica della natura umana”.

Davai: esortazione-mantra che percorre tutto questo film corale che ricorda una vaudeville, buffa e buffonesca tra il teatro itinerante e il circo, facendone una pratica più collettiva e meno gerarchica di quella meramente cinematografica: ad esempio uno dei personaggi maschili, interpretato uno strepitoso Marc Barbé si chiama Mr Déloyal in un capovolgimento della figura circense di Monsieur Loyal, che nella tradizione francese rappresenta il capo della pista.

Una compagnia teatrale di Orchi, una famiglia ricomposta e utopica che vive in e di un’autarchia precaria, ultimi avventurieri fieramente artisti in un mondo assopito e mediocre. E la grande bellezza e la grande difficoltà di tutte le famiglie intese come relazioni che vanno al di là di quelle di sangue ma che si riferiscono a chi incontri, chi cerchi, con chi lavori e condividi è quella di amarsi ma non riuscire ad aiutarsi…anzi a volte addirittura a farsi del male come raccontato nella favola del re e del menestrello. Ed infatti c’è anche chi se ne va: Inès, la figlia che si sente sacrificata ed incompresa… e la madre si trova costretta ad ammettere “ha bisogno di vivere senza di noi!”. Inès rappresenta un po’ l’alter ego di Léa, la regista che cresciuta in un ambiente simile, se ne è allontanata per arrivare a metabolizzarlo solo ora…e l’ha metabolizzato così bene che nel cast recitano il padre, François, la sorella Inès e la madre Marion Bouvarel! La sua famiglia infatti, nei primi anni Novanta, ha costituito il teatro itinerante AGIT, un teatro militante che sulla scia del Théâtre du Soleil e del Grand Magic Circus, mischiando musica, danza, marionette e continuo coinvolgimento del pubblico ha creato progetti di educazione popolare nella zona di Tolosa in collaborazione con Tahar Ben Jelloun e Katib Yassine. Ed anche il precedente film ambientato nel parlatorio di una prigione, luogo simbolico di un confine invalicabile tra interno ed esterno Qu’un seul tienne et les autres suivront (titolo internazionale Silent voice) è nato da esperienze di volontariato di Léa in associazioni che sostengono le famiglie dei carcerati. Il film è stato vincitore nel 2009 di numerosi premi tra cui Prix Delluc, Etoiles d’or e Lumiere Award.

In questo microcosmo avviluppati da un sovraccarico sensoriale (musica, battute, doppi sensi, pantomime, metafore, ostentata meta teatralità, fiumi di alcool e continui cambi di suntuosi abiti di scena) vediamo gli Orchi avere fame di vita, di cibo, di pubblico, di battibecchi, di amicizia e d’amore ma ne vediamo anche gli aspetti più grevi ed irriverenti in un continuum tra comicità, dramma e tragedia, tra clown e pierrot: quando le labbra sorridono, vediamo anche la lacrima che scende sulla guancia. Tra entusiasmi e smarrimenti, qui ed ora, bambini, giovani, anziani ed animali navigano a vista senza neppure (intra)vedere l’orizzonte consapevoli che essere vivi non significa vincere o guadagnare ma essere liberi e scegliere le proprie strade (anche) fuori dai sentieri battuti. I bambini nascono anche se i padri non si sentono pronti, le donne si trovano amanti anche se sono incinte, le coppie continuano ad amarsi anche se sono scoppiate, la troupe continua a recitare anche se le casse sono perennemente vuote, si lotta contro il vento quando si smonta il tendone e si continua a vivere mischiando gli antidepressivi… certo “sarebbe meglio l’eroina…ma non è rimborsabile!”. Questa è la scelta e la filosofia del teatro itinerante: condividere invece che brillare da solista a scapito degli altri.

Sono dunque Orchi perché non hanno paura di essere trasgressivi né di pagarne le conseguenze: spietatamente sinceri sino ad umiliare pubblicamente gli altri (memorabile la sequenza in cui Marion viene messa all’asta mentre François le rinfaccia “i tuoi desideri si sono rimpiccioliti…pensi sia desiderabile una donna come te?” e quando torna dalla notte con l’amante l’apostrofa “ti si è riempito il culo, ti si è svuotata la testa” per poi urlare a tutta la troupe “Mia moglie ha scopato con un altro!” e ricevere per tutta risposta “Ma almeno lei sta zitta”) con un appetito per la vita che ricorda Rabelais e quel Pantagruel che protegge Utopia invasa dai Dipsodi grazie all’aiuto del frate Fracassatutto e lo ricompensa per l’aiuto con un monastero la cui unica regola è “fai quello che vuoi”.
Un appetito di passione per la vita così rumoroso e totalizzante che arriva anche a cibarsi di chi sta più vicino e così si arrampicano le une sulle altre scene, storie, amori, tradimenti, champagne, ostriche, vino, vodka, fuoco, arte…insomma tutto ciò che ha e dà l'energia per superare il dolore. E si arrampicano anche il codice altro delle citazioni di Chechov con il codice basso delle funzioni corporali, degli animali che scorrazzano liberi, e di un’epica battaglia a colpi di cous-cous che ricorda Obelix e che porta ad una scazzottata sulle note di 24.000 baci di Celentano che coinvolge persino un acquario con i pesci colorati che schizzano ovunque sul pavimento e cercano comunque di nuotare (ennesimo omaggio al Giardino dei Ciliegi?!?) fino a morirne. Dopo l’ennesima sbornia si risvegliano beccati dalle oche in mezzo alle merde di mucche e si mettono a ripulire per lo spettacolo della sera che però avrà un imprevisto che ricompone in maniera inaspettata l’equilibrio precario della troupe…in attesa della prossima tempesta e del prossimo tramonto da cavalcare.
Titolo: Les Ogres
Regista: Léa Fehner
Sceneggiatura: Léa Fehner, Catherine Paillé e Brigitte Sy
Suono: Julien Sicart
Fotografia: Julien Poupard
Montaggio: Julien Chigot
Costumista: Sylvie Heguiaphal
Editor: Julien Chigot
Musica: Philippe Cataix
Casting: Sarah Teper
Produzione: Philippe Liegeois
Casa di produzione: Films Bus
Casa di Distribuzione: Pyramide International (Parigi)
Paese: Francia
Durata: 144’






non si vedono parlare ma di cui si sentono le parole. Ci sono infatti molte scene in cui il volto diventa una mappa da decifrare come sostenevano già Ejzenstein (“con l’aiuto del primo piano lo spettatore penetra nell’intimità di ciò che succede sullo schermo”) e Balzas (“è la drammatica rivelazione di ciò che realmente si nasconde nell’apparenza di un uomo”) in particolare quella nell’ospedale Al Salam dove Khaled sta assistendo la madre morente e quando le mente sul suo stato di salute si sente la voce ma con un primissimo piano sulla bocca chiusa.
inciampare sui cadaveri (e che si fa quando si vedono cadaveri? Si ripulisce il sangue o si scappa?) Hasan e Tareq si confrontano invece sulla scelta tra restare (“Baghdad non è una città è un amico”) o emigrare (“posso piantare Baghdad altrove come un seme o una pianta e fiorirebbe”) battibeccando in un crescendo di toni (“Puoi girare il mondo col tuo nuovo passaporto tedesco ma morirai di nostalgia per Baghdad!” - “…meglio che morire a Baghdad!” - “morire a Baghdad o a Berlino è uguale”). E da Baghdad arrivano spezzoni video (splendide le immagini del fiume) con una modalità analoga al film siriano “Ma’a al fidda” (titolo internazionale “Silvered water”) che combina immagini in bassa risoluzione girate da Wiam Simav Berdixan a Homs e filmati messi in rete da attivisti con il montaggio e la regia di Ossama Mohammed da Parigi, laureatosi in cinema a Mosca e regista di “Box of life” presentato a Cannes nel 2002. Tra gli spezzoni arrivati da Baghdad ci sono anche quelli che raccontano la storia di Hajj Mahdi, calligrafo quasi novantenne che ricorda l’epoca in cui disegnava le locandine di film che hanno fatto la storia del cinema iracheno… e disegna anche la splendida calligrafia del titolo mentre la radio parla della guerra in Yemen e del supporto americano contro gli estremisti.
Ma anche il Cairo offre una speranza: in una scena tutta virata sui toni del rosso mentre la piazza è divisa tra manifestanti ed esercito, davanti alle camionette passa un ambulante con stretti in mano dei palloncini rossi che con una ripresa in grandangolo oscurano (o illuminano?!?) le camionette fino a prendersi l’intero schermo.
Watch over Me” sempre di Frank McGuinness con cui ha ricevuto cinque stelle nel quotidiano The Scotsman, il più giovane regista di sempre ad ottenere questo riconoscimento. All’università ha co-fondato con Rebecca Hall una compagnia teatrale che ha vinto il Drama National Student Festival con la piece di Edward Albee “Chi ha paura di Virginia Woolf?”; ha poi interpretato il ruolo di Tamerlano il Grande nella compagnia teatrale Canon's Mouth, fondata nel 2003 da Peter Hall ed è andato a Parigi per un anno a seguire i corsi di Philippe Gaulier. 
Square” di Stefano Savona e “The Square” di Jehane Noujaim, premio del pubblico al Sundance Festival e al Toronto International Film Festival del 2013 e candidato all’Oscar 2014 come Miglior Documentario in cui Khaled Abdalla interpreta se stesso.
Zacaria alla ricerca del fratello incappato nelle rete del fondamentalismo islamico e la sua fidanzata Judith. Il gruppo si muove dalle montagne dell’Atlante ad Istanbul, alle pianure del Kurdistan fino ad arrivare in Iraq attraversando mappe cinematografiche di passaggio ancora in bilico tra decolonizzazione e post-colonialismo, tra foto di Albert Camus, manifesti marxista e dettagli di interni finendo con lo splendido piano sequenza in campo lungo di bambini che giocano con la grazia della leggerezza inviolati e inviolabili dalle brutture del mondo adulto: un “ristabilire la fede nel mondo” per dirla alla Deleuze.




