Apr 28, 2024 Last Updated 10:19 AM, Oct 14, 2021

52a MOSTRA 2016

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Abbiamo siglato un accordo con il Pesaro Film festival per raccontare tutti gli eventi della 52a Mostra 2016.

La nostra inviata Monica Macchi ci racconterà tutto attraverso articoli, foto e videointerviste durante i giorni della Mostra, dal 2 al 9 luglio 2016.

PESARO A MILANO

Per il quarto anno consecutivo la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, in collaborazione con Formacinema e Agis Lombardia, presenterà a settembre all’interno della manifestazione Le Vie del Cinema 2016 (insieme al festival di Venezia e da quello di Locarno) i film vincitori del Premio Lino Miccichè Concorso Pesaro Nuovo Cinema e del Premio del Pubblico Cinema in piazza.

COMUNICATO STAMPA DEL PESARO FILM FESTIVAL 52A EDIZIONE 2016:

LA 52A MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA DI PESARO - DAL 2 AL 9 LUGLIO 2016

Otto giorni - dal 2 la 9 luglio - tra passato, presente e futuro del cinema. La 52a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro diretta da Pedro Armocida (ri)parte nel segno del “nuovo cinema”, in un moto ondoso che porterà il pubblico a seguire una manifestazione chiara nella programmazione e con una precisa messa a fuoco nel mostrare lampi di luce di cinema, eterogenei ma sempre interrogativi e pieni di senso. Al mattino, infatti, ci saranno gli incontri con gli autori, le tavole rotonde e i dibattiti (Centro Arti Visive Pescheria); al pomeriggio e alla sera le proiezioni (sala Grande e sala Pasolini del Teatro Sperimentale e Cinema in Piazza); a mezzanotte la novità della sonorizzazione dei capolavori del cinema (Palazzo Gradari).

Con lo sguardo rivolto agli studenti che, da tutta Italia e sempre più numerosi, affollano i luoghi del festival, la Mostra torna ad essere il luogo privilegiato di formazione dei futuri spettatori, che comporranno la giuria, presieduta da Roberto Andò, che sceglierà il film vincitore del Premio Lino Miccichè del Concorso. Agli stessi sono dedicate le due selezioni che più guardano al futuro del cinema, il Concorso (con i film che meglio incarnano l’idea di nuovo cinema, lontano anche dai classici stilemi tipicamente “da festival”) e la nuova SATELLITE – Visioni per il cinema futuro (che punta a quella produzione extraindustriale a low-budget) insieme a due omaggi retrospettivi, Rocky di John G. Avildsen, uscito quarant’anni fa negli Stati Uniti (il film con Silvester Stallone verrà proiettato nell’arena in piazza venerdì 1 luglio come evento di pre-apertura durante la Notte Rosa della Riviera Adriatica) e C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, regista scomparso lo scorso gennaio a cui la Mostra aveva dedicato l’Evento Speciale nel 2002.

Il tutto sarà accompagnato dalla retrospettiva Romanzo popolare – a cui è dedicato il consueto volume Romanzo popolare. Narrazione, pubblico e storie del cinema italiano negli anni Duemila a cura di Pedro Armocida e Laura Buffoni ed edito Marsilio e la tavola rotonda – che, attraverso coppie o tris di film, tra passato e presente, affrontano tematiche che spaziano dal lavoro alla politica, con linguaggi e cifre stilistiche distinti.

Altre retrospettive significative saranno quelle dedicate al regista algerino Tariq Teguia, la cui arte ha come punto di riferimento quella di Jean-Luc Godard e quella dedicata al Critofilm – termine con cui ci si riferisce ai film sul cinema, ormai divenuto un vero e proprio genere cinematografico, ufficializzato con la vittoria di Novo film di Eryk Rocha come Miglior documentario all’ultima edizione del Festival di Cannes – a cura di Adriano Aprà che ha dedicato al Critofilm anche il primo ebook multimediale della Mostra. Un ruolo importante sarà ricoperto anche dall’animazione italiana, sia per la sezione Corti in Mostra – Animatori italiani oggi a cura di Pierpaolo Loffreda, che comprende una selezione tra i migliori cortometraggi di animazione italiana, sia per il manifesto e la sigla realizzati da Virgilio Villoresi, tra gli autori più illustri del genere. Immancabile, poi, la consueta sezione Sguardi femminili a cura di Giulia Marcucci, dedicata alle nuove tendenze del cinema russo contemporaneo.

Completano la Mostra: l’evento dedicato a Le ragazze del porno, all’interno del quale sarà proiettato l’ultimo cortometraggio di Monica Stambrini, Queen Kong, ed accompagnato dalla tavola rotonda Porno al femminile con la rivista «8 e ½» di Gianni Canova; Super 8, la sezione a cura di Karianne Fiorini e Gianmarco Torri dedicata a due autori come Giuseppe Baresi e John Porter che lavorano con questo formato; il Concorso (Ri)montaggi. Il cinema attraverso le immagini a cura di Chiara Grizzaffi e Andrea Minuz, una selezione di cinque video essay/recut/mash-up/remix con una giuria composta da Rinaldo Censi, Tommaso Isabella e Daniela Persico che sceglieranno il vincitore; le Lezioni di storia – Videoteppismi: storie e forme del video di lotta a cura di Federico Rossin, incontri e lezioni di storia attraverso la proiezione di alcuni film suddivisi in tre programmi. 

Non solo, tutte le sere, a partire dalla mezzanotte, sarà possibile partecipare al Dopofestival – Il muro del suono a cura di Anthony Ettorre (con la collaborazione di Pedro Armocida, Rinaldo Censi e Giulia Ghigi), in un alternarsi di musica e immagini fuori dagli sche(r)mi, in cui ci sarà anche Violante Placido, col suo alter ego musicale “Viola”.

LES OGRES: GLI ORCHI DEL DAVAI THEATRE

 les ogres still

Se ti piace Cechov,

potrai sempre cavartela nella vita.

Vivere, lavorare, essere felici e cercare la bellezza…

La vita sta in questo, non nei soldi 

Ariane Mnouchkine, fondatore del Théâtre du Soleil

Leggendo non vi scandalizzate

meglio è scrivere di risa che di pianti

chè ridere soprattutto è cosa umana

Rabelais

Il cinema è un turbine, che ci porta in una danza.

non avrete mica intenzione di starvene tranquilli in poltrona…

No, qui ci si agita, si partecipa, ci si lascia invadere

e si frantumano le convenzioni sociali

Léa Fehner

I fan del cinema congelato e gli abbonati alle sale col velluto rosso

 lo troveranno troppo esuberante, troppo urlato, troppo partigiano, troppo generoso

e noi li compiangiamo perchè sono già morti

mentre Léa Fehner è viva. Applausi.

Jerome Garcin, critico cinematografico del  Nouvel Observateur

L’arte e(è) la vita su un palcoscenico on the road senza distinzione tra scena e retroscena, in bilico tra Rabelais e Checov. Ecco a voi gli orchi del Davai Theatre: amori, tradimenti, bimbi ed animali che scorrazzano liberi, sontuosi costumi, sbronze  e scazzottate… “e soffi pure la tempesta che io cavalco il tramonto!” Miglior film al Festival di Cabourg, ha vinto il premio del pubblico e della critica al 52° Festival di Pesaro con la seguente motivazione: “Per raccontare con efficacia le molteplici sfumature della vita, che prendono forma nella rappresentazione di un variopinto microcosmo; per la sua narrazione acrobatica e dinamica che avvolge lo spettatore in un girotondo di note, colori ed emozioni; per l’incisività dei dialoghi che restituiscono la malinconia dell’esistenza; per farsi specchio sognante dell’essenza artistica della natura umana”.

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Davai: esortazione-mantra che percorre tutto questo film corale che ricorda una vaudeville, buffa e buffonesca tra il teatro itinerante e il circo, facendone una pratica più collettiva e meno gerarchica di quella meramente cinematografica: ad esempio uno dei personaggi maschili, interpretato uno strepitoso Marc Barbé si chiama Mr Déloyal in un capovolgimento della figura circense di Monsieur Loyal, che nella tradizione francese rappresenta il capo della pista.

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Una compagnia teatrale di Orchi, una famiglia ricomposta e utopica che vive in e di un’autarchia precaria, ultimi avventurieri fieramente artisti in un mondo assopito e mediocre. E la grande bellezza e la grande difficoltà di tutte le famiglie intese come relazioni che vanno al di là di quelle di sangue ma che si riferiscono a chi incontri, chi cerchi, con chi lavori e condividi è quella di amarsi ma non riuscire ad aiutarsi…anzi a volte addirittura a farsi del male come raccontato nella favola del re e del menestrello. Ed infatti c’è anche chi se ne va: Inès, la figlia che si sente sacrificata ed incompresa… e la madre si trova costretta ad ammettere “ha bisogno di vivere senza di noi!”. Inès rappresenta un po’ l’alter ego di Léa, la regista che cresciuta in un ambiente simile, se ne è allontanata per arrivare a metabolizzarlo solo ora…e l’ha metabolizzato così bene che nel cast recitano il padre, François, la sorella Inès e la madre Marion Bouvarel! La sua famiglia infatti, nei primi anni Novanta, ha costituito il teatro itinerante AGIT, un teatro militante che sulla scia del Théâtre du Soleil e del Grand Magic Circus, mischiando musica, danza, marionette e continuo coinvolgimento del pubblico ha creato progetti di educazione popolare nella zona di Tolosa in collaborazione con Tahar Ben Jelloun e Katib Yassine. Ed anche il precedente film ambientato nel parlatorio di una prigione, luogo simbolico di un confine invalicabile  tra interno ed esterno Qu’un seul tienne et les autres suivront  (titolo internazionale Silent voice) è nato da esperienze di volontariato di Léa in associazioni che sostengono le famiglie dei carcerati. Il film è stato vincitore nel 2009 di numerosi premi tra cui  Prix Delluc, Etoiles d’or e Lumiere Award.

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In questo microcosmo avviluppati da un sovraccarico sensoriale (musica, battute, doppi sensi, pantomime, metafore, ostentata meta teatralità, fiumi di alcool e continui cambi di suntuosi abiti di scena) vediamo gli Orchi avere fame di vita, di cibo, di pubblico, di battibecchi, di amicizia e d’amore ma ne vediamo anche gli aspetti più grevi ed irriverenti in un continuum tra comicità, dramma e tragedia, tra clown e pierrot: quando le labbra sorridono, vediamo anche la lacrima che scende sulla guancia. Tra entusiasmi e smarrimenti, qui ed ora, bambini, giovani, anziani ed animali navigano a vista senza neppure (intra)vedere l’orizzonte consapevoli che essere vivi non significa vincere o guadagnare ma essere liberi e scegliere le proprie strade (anche) fuori dai sentieri battuti. I bambini nascono anche se i padri non si sentono pronti, le donne si trovano amanti anche se sono incinte, le coppie continuano ad amarsi anche se sono scoppiate, la troupe continua a recitare anche se le casse sono perennemente vuote, si lotta contro il vento quando si smonta il tendone e si continua a vivere mischiando gli antidepressivi… certo “sarebbe meglio l’eroina…ma non è rimborsabile!”. Questa è la scelta e la filosofia del teatro itinerante: condividere invece che brillare da solista a scapito degli altri.

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Sono dunque Orchi perché non hanno paura di essere trasgressivi né di pagarne le conseguenze: spietatamente sinceri sino ad umiliare pubblicamente gli altri (memorabile la sequenza in cui Marion viene messa all’asta mentre François le rinfaccia “i tuoi desideri si sono rimpiccioliti…pensi sia desiderabile una donna come te?” e quando torna dalla notte con l’amante l’apostrofa “ti si è riempito il culo, ti si è svuotata la testa” per poi urlare a tutta la troupe “Mia moglie ha scopato con un altro!” e ricevere per tutta risposta “Ma almeno lei sta zitta”) con un appetito per la vita che ricorda Rabelais e quel Pantagruel che protegge Utopia invasa dai Dipsodi grazie all’aiuto del frate Fracassatutto e lo ricompensa per l’aiuto con un monastero la cui unica regola è “fai quello che vuoi”.

Un appetito di passione per la vita così rumoroso e totalizzante che arriva anche a cibarsi di chi sta più vicino e così si arrampicano le une sulle altre scene, storie, amori, tradimenti, champagne, ostriche, vino, vodka, fuoco, arte…insomma tutto ciò che ha e dà  l'energia per superare il dolore. E si arrampicano anche il codice altro delle citazioni di Chechov con il codice basso delle funzioni corporali, degli animali che scorrazzano liberi, e di un’epica battaglia a colpi di cous-cous che ricorda Obelix e che porta ad una scazzottata sulle note di 24.000 baci di Celentano che coinvolge persino un acquario con i pesci colorati che schizzano ovunque sul pavimento e cercano comunque di nuotare (ennesimo omaggio al Giardino dei Ciliegi?!?) fino a morirne. Dopo l’ennesima sbornia si risvegliano beccati dalle oche in mezzo alle merde di mucche e si mettono a ripulire per lo spettacolo della sera che però avrà un imprevisto che ricompone in maniera inaspettata l’equilibrio precario della troupe…in attesa della prossima tempesta e del prossimo tramonto da cavalcare.

Titolo: Les Ogres

Regista: Léa Fehner

Sceneggiatura: Léa Fehner, Catherine Paillé e Brigitte Sy

Suono: Julien Sicart

Fotografia: Julien Poupard

Montaggio: Julien Chigot

Costumista: Sylvie Heguiaphal

Editor: Julien Chigot

Musica: Philippe Cataix

Casting: Sarah Teper

Produzione: Philippe Liegeois

Casa di produzione: Films Bus

Casa di Distribuzione: Pyramide International (Parigi)

Paese: Francia

Durata: 144’

IN THE LAST DAYS OF THE CITY: LO SPIRITO DELLE CITTÀ SOFFIA NEL VENTO

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“Voglio viaggiare per baciarti per strada

e sentire che è normale”

Laila a Khaled

Come si fa ad ascoltare il silenzio nel rumore del Cairo?

C’è qualcosa che non riesco a catturare nel frastuono e nella folla

ma voglio fare il film anche se non so come finirà

Khaled

C’è dolore e tristezza nel tuo amore verso il Cairo,

come se ti avesse tradito

Hanan a Khaled

“Il rapporto con il Cairo è come quello con una donna

che ti rifiuta, scappa, sembra indifferente,

poi invece ammicca un sorriso,

e tu sei lì caduto ai suoi piedi”

Tamer El Said

L’attesa, la tensione, la paura: Il Cairo, Beirut, Baghdad, simboli del mondo arabo contemporaneo, nelle sensazioni di 4 amici attraverso l’arte di un cinema che si gira (anche) in politica. Eccezionale il sound design: i rumori, i silenzi, il Corano salmodiato, le notizie dalla radio si trasformano in immagini che a volte li contraddicono e altre si rincorrono in una Cairo continuamente riflessa in vetri e specchi. E tra gli islamisti e le camionette dell’esercito passa un ambulante coi palloncini rossi stretti in mano, esplicito richiamo a Suleiman e rifugio in una poesia che, come dice il calligrafo iracheno, “è ovunque! Aspetta solo di essere scritta”. Presentato a Berlino, Amsterdam, Boston, Lima, Melbourne, Vilnius e Buenos Aires dove ha vinto il premio per la miglior regia, arriva in prima visione a Milano, dopo essere passato al Festival di Pesaro.

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Il film racconta lo spirito delle città e come interagisca con le persone che ci vivono…e anche con chi le ha abbandonate: Khaled e il Cairo, Basem e Beirut, Hasan e Baghdad e Tareq sospeso tra Baghdad e Berlino.

Khaled sta cercando di terminare un film che ha in mente da molto tempo ma che non riesce a realizzare e nel frattempo deve elaborare il lutto per la morte del padre ed affrontare la malattia della madre, l’abbandono della fidanzata che vuole andarsene a Londra e uno sfratto che lo costringe a cercare un nuovo appartamento in Wast al balad (cioè Downtown, il centro storico) tra galline tenute in casa e ascensori tappezzati di slogan islamisti.

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Una Cairo stretta tra islamisti ed esercito, il cui splendore è sbiadito, incrostato da povertà e sporcizia, sopraffatto dalla frenesia, dai rumori cacofonici del traffico, dalle notizie della radio che in fusha, l’arabo classico che marca la distanza con la quotidianità delle persone che parlano il dialetto, sproloquia di calcio e politica su immagini che le contraddicono impietosamente: palazzi semi-sventrati che lasciano intravedere pezzi di quotidianità abbandonata, venditori di fiori semi-appassiti, tuk tuk, persone sporche e lacere che mangiano per strada e sacchi della spazzatura usati come borse per le mercanzie.

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Così sulla base della definizione di estetica del cinema arabo sostenuta dal regista libanese Burhan Alawiyya secondo cui “noi arabi vediamo con le orecchie e sentiamo con gli occhi…per noi tutto ha forma orale…ma nel cinema bisogna vedere con gli occhi e trasformare la luce, il colore e le immagini in un linguaggio” le immagini e le parole vengono scisse a creare un effetto straniante e simbolico amplificato dai primi piani sui volti di persone bollanon si vedono parlare ma di cui si sentono le parole. Ci sono infatti molte scene in cui il volto diventa una mappa da decifrare come sostenevano già Ejzenstein (“con l’aiuto del primo piano lo spettatore penetra nell’intimità di ciò che succede sullo schermo”) e Balzas (“è la drammatica rivelazione di ciò che realmente si nasconde nell’apparenza di un uomo”) in particolare quella nell’ospedale Al Salam dove Khaled sta assistendo la madre morente e quando le mente sul suo stato di salute si sente la voce ma con un primissimo piano sulla bocca chiusa.

E poi all’improvviso scorgi qualche particolare inaspettato che ti riconcilia con la vita e con la città ma solo quando è riflessa in vetri e specchi come se si potesse ammirare la città solo attraverso una lente, prendendone le distanze.

E quando arrivano gli amici registi per un panel su come le loro città alternativamente aprono e (ri)chiudono le loro anime con un dibattito sull’arte di un cinema che si gira (anche) in politica, lo sguardo si allarga a Libano ed Iraq, due luoghi chiave nell’immaginario cinematografico contemporaneo mediorientale. 

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Basem, nato a Beirut in inverno e vissuto sempre in una guerra civile che si tramuta in una tensione strisciante, si accorge ben presto di non riuscire a filmarla perché altrimenti resterebbe senza una città che pure non capisce e da cui non si sente capito: Beirut “è una menzogna, bella fuori e marcia dentro”…e anche qui dalla radio arriva la notizia di un’autobomba mentre gli avventori del bar parlano (ancora) della Naksa, la sconfitta-trauma del 1967. Si cercano radici e si trovano fantasmi: le utopie del Sessantotto, i palestinesi, il panarabismo al punto tale che nel film Zanj Revolution di Tareq Teguia, Beirut rappresenta “tutte le speranze e le contraddizioni in un territorio di perplessità” e in una galleria d’arte viene proiettato Ici et ailleurs di Jean-Luc Godard “in memoria dei nostri fallimenti”. Ed il “qui e altrove” diventa “qui o altrove”: per Rami, rifugiato palestinese “qui o altrove è lo stesso: siamo sempre clandestini” e Nahla figlia di esuli palestinesi dice: “sono di qui, sono di altrove, sono di nessun luogo: sono palestinese”. In una Baghdad paralizzata da guerra e paura dove si insegna ai bambini a non inpiazzainciampare sui cadaveri (e che si fa quando si vedono cadaveri? Si ripulisce il sangue o si scappa?) Hasan e Tareq si confrontano invece sulla scelta tra restare (“Baghdad non è una città è un amico”) o emigrare (“posso piantare Baghdad altrove come un seme o una pianta e fiorirebbe”) battibeccando in un crescendo di toni (“Puoi girare il mondo col tuo nuovo passaporto tedesco ma morirai di nostalgia per Baghdad!” - “…meglio che morire a Baghdad!” - “morire a Baghdad o a Berlino è uguale”). E da Baghdad arrivano spezzoni video (splendide le immagini del fiume) con una modalità analoga al film siriano “Ma’a al fidda” (titolo internazionale “Silvered water”) che combina immagini in bassa risoluzione girate da Wiam Simav Berdixan a Homs e filmati messi in rete da attivisti con il montaggio e la regia di Ossama Mohammed da Parigi, laureatosi in cinema a Mosca e regista di “Box of life” presentato a Cannes nel 2002. Tra gli spezzoni arrivati da Baghdad ci sono anche quelli che raccontano la storia di Hajj Mahdi, calligrafo quasi novantenne che ricorda l’epoca in cui disegnava le locandine di film che hanno fatto la storia del cinema iracheno… e disegna anche la splendida calligrafia del titolo mentre la radio parla della guerra in Yemen e del supporto americano contro gli estremisti.

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Ma soprattutto dà uno spiraglio di speranza: rifugiarsi nell’arte, nella bellezza, nell’armonia…in una parola nella “poesia che è ovunque! Aspetta solo di essere scritta”, concetto ribadito dalla canzone finale di El Jabouri “apri la tua anima al vento e vivi” con un’allitterazione in arabo tra روح e رياح. E anche in Itar el-Layl (titolo internazionale The Narrow frame of Midnight), film on the road dal Marocco ad Istanbul, dal Kurdistan fino all’Iraq, per “ristabilire la fede nel mondo” superandone le brutture serve tuffarsi nella poesia delle relazioni interpersonali oltrepassando le frontiere mentali…se non quelle geografiche.

 

01locandinasuleimanMa anche il Cairo offre una speranza: in una scena tutta virata sui toni del rosso mentre la piazza è divisa tra manifestanti ed esercito, davanti alle camionette passa un ambulante con stretti in mano dei palloncini rossi che con una ripresa in grandangolo oscurano (o illuminano?!?) le camionette fino a prendersi l’intero schermo.

Ed il palloncino rosso è un’immagine iconica nel mondo mediorientale a partire da Yad ilaiyya (Intervento divino) di Elia Suleiman, film del 2002 che ha vinto il Festival di Cannes, dove un palloncino rosso con il volto di Arafat viene fatto volare sul checkpoint di Ramallah e riesce a volare imprendibile e inarrestabile fino alla spianata delle Moschee, luogo sacro per l’Islam dove sorge la Moschea di Al-Aqsa ma politicamente rivendicato dagli israeliani come luogo del Tempio di Salomone e su cui Sharon ha fatto la provocatoria passeggiata scintilla dell’Intifada.

 

Ma le speranze negli accordi di Oslo vengono disattese e pochi anni dopo gli Yes Theatre, gruppo teatrale di Hebron, scrivono e interpretano “3 in 1” una serie di quadri sulla loro vita quotidiana in Palestina sottoposti non solo all’occupazione israeliana (dal controllo ai check point ai continui interrogatori con le stesse domande che si ripetono sempre uguali e che sono stati resi con una musica elettronica martellante che robotizzava sia chi incalzava che chi rispondeva) ma anche ad una cultura machista che guarda con sospetto all’arte considerata un vizio inutile. Artisticamente eccezionale ma desolante e desolato il finale: Ihab dopo un lungo monologo in cui denuncia di aver passato 36 anni senza evoluzioni si presenta in scena con un palloncino rosso a cui si impicca spiegando con questo solo gesto tutto quello che è cambiato in Palestina in questi 10 anni: i sogni sono diventati più piccoli.

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Ma al Cairo l’ambulante tiene ben stretti in mano i palloncini: certo non li fa volare ma nemmeno ci si impicca…basterà questo per evitare che il Cairo faccia la fine di Beirut o di Baghdad?!?

MONICA MACCHI

 

Titolo arabo: آخرأيامالمدينة (Akher ayam fil madina)

Titolo internazionale: In the last days of the city

Regia: Tamer El Said

Sceneggiatura:Tamer El Said, Rasha Salti

Fotografia:Bassem Fayad

Scenografia: Salah Marei

Montaggio:Mohamed A. Gawad, Vartan Avakian, Barbara Bossuet

Colonna sonora: Amélie Legrand, Victor Moïse

Colore: Jorge Piquer Rodriguez

Effetti Visivi: Unai Rosende

Art Director: Yasser El Husseiny

Costumi: Zeina Kiwan

Produttori: Tamer El Said, Khaled Abdallah,

Co-produttori: Michel Balaguè, Marcin Malaszczak, Cat Villiers

Produzione: Zero Production

Co-produzione: Sunnyland Film, Autonomous, Mengamuk Films

Durata: 118’

Paesi Produttori: Egitto/Germania/Regno Unito/Emirati Arabi Uniti

Anno: 2016

PROFILO DI KHALED ABDALLA PROTAGONISTA DI IN THE LAST DAYS OF THE CITY

Khalid Abdalla 


“Non è un’iperbole.

Penso davvero che Khaled Abdalla

sia uno dei migliori attori della sua generazione”

Paul Greengrass

“Non si può parlare di cinema arabo senza parlare di politica.

L'attore che è in me usa la videocamera

per rappresentare la violenza di Stato

così come l'attivista politico che è in me fa film

per spostare la percezione della gente

Ogni terreno richiede una partecipazione diversa, naturalmente,

ma sono due facce della stessa medaglia”

Khaled Abdalla

Khaled Abdalla è nato a Glasgow nel 1980 e a 15 anni ha scoperto la passione per il teatro grazie ad un’insegnante che l’ha convinto a recitare nella piece “Observe the Sons of Ulster Marching Towards the Somme” di Frank McGuinnes…e da allora non ha più smesso. Nel 1998, ha diretto una produzione di “Someone Who'll LOCANDINAunited93Watch over Me” sempre di Frank McGuinness con cui ha ricevuto cinque stelle nel quotidiano The Scotsman, il più giovane regista di sempre ad ottenere questo riconoscimento. All’università ha co-fondato con Rebecca Hall una compagnia teatrale che ha vinto il Drama National Student Festival con la piece di Edward Albee “Chi ha paura di Virginia Woolf?”; ha poi interpretato il ruolo di Tamerlano il Grande nella compagnia teatrale Canon's Mouth, fondata nel 2003 da Peter Hall ed è andato a Parigi per un anno a seguire i corsi di Philippe Gaulier. Tutto focalizzato sul teatro, non pensava minimamente al cinema, finchè non ha incontrato Paul Greengrass che lo ha avvicinato e poi convinto a fare un provino per United 93, film sul volo della United Airlines dirottato negli attacchi dell'11 settembre.

 

Film candidato all'Oscar 2006 e vincitore del BAFTA che ha messo alla prova Abdalla non solo dal lato professionale come attore di cinema ma anche dal lato umano e politico: proveniente da una famiglia di oppositori dei governi egiziani (il nonno Ibrahim Saad El-Din economista di sinistra, è stato imprigionato più volte sotto Nasser e il padre Hossam, leader delle proteste studentesche degli anni Settanta, è finito in prigione sotto Sadat) si prende un anno sabbatico in Egitto lavorando ad Al-Ahram Weekly, studiando l'arabo classico, e girovagando per Marocco, Libano, Siria, Giordania e Palestina. Qui incontra lo scrittore Omar Robert Hamilton, uno dei fondatori del PalFest (Festival della Letteratura della Palestina) che pubblicherà a breve il suo primo romanzo “The City Always Wins” sulla rivoluzione e sui sogni di un’intera generazione di egiziani.

Tornati in Egitto, i due insieme a Tamer el Said, Lobna Darwish e altri attivisti,  contribuiscono a fondare i Mosereen, un collettivo di citizen journalism diventato il canale You Tube no-profit più visto in Egitto, da cui sono usciti numerosi filmaker tra cui lo stesso Omar Robert Hamilton (regista di “Though I Know the River is Dry” vincitore del premio UIP al festival di Rotterdam 2013) e Leil Zahra Mortada, regista di Words of Women e portavoce di OpAntiSH, (Operation AntiSexual Harrasment) una campagna contro le molestie sessuali. Da questo progetto, in collaborazione con altri movimenti come “3askar Kazeboon”(cioè “i militari sono bugiardi”) è nato Tahrir Cinema piccoli schermi montati all’aperto in spazi pubblici con una serie quotidiana di proiezioni video per contrastare i racconti dei media ufficiali e mostrare quello che la tv di stato continua(va) a non mostrare. Così la visual artist Lara Baladi “Eravamo alla ricerca di tutto ciò che potesse fungere da schermo…compresi pezzi di legno e plastica! Aveva il fascino dell'impossibile diventato possibile”.

CINEMAINPIAZZA

Piazza Tahrir è anche il luogo attorno a cui ruotano due docu-film che ne mostrano la trasformazione in uno spazio pubblico di autorganizzazione aperto a tutti e che hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, “Tahrir-Liberation FOTOTHESQUARESquare” di Stefano Savona e “The Square” di Jehane Noujaim, premio del pubblico al Sundance Festival e al Toronto International Film Festival del 2013 e candidato all’Oscar 2014 come Miglior Documentario in cui Khaled Abdalla interpreta se stesso. La telecamera oltre Khaled (con pietre e megafono alla mano) segue Ahmed, un sottoproletario, Magdy un Fratello Musulmano, Aida, una studentessa fashionista e Rami Essam un fino ad allora semi-sconosciuto studente di architettura che ha messo in musica gli slogan della piazza, è stato poi torturato e ora vive in Inghilterra. Non solo Khaled Abdalla è uno dei protagonisti , ma ha anche partecipato alla sceneggiatura, sua moglie Cressida Trew è una delle camera women e in una scena del film durante una conversazione via Skype col padre viene così apostrofato a proposito degli schermi in piazza “Ma che?!? Vuoi avviare una stazione televisiva?!?”

Invece di una stazione televisiva Khaled Abdalla fonda la Zero Production, una società di produzione cinematografica indipendente con Tamer El-Said, Hala Lotfy e Ibrahim El-Batout (di cui abbiamo già parlato qui https://formacinema.wordpress.com/?s=winter+of+discontent  e qui http://www.formacinema.it/critica-internazionale/medio-oriente/egitto/egitto-2/224-el-batout-e-il-festival-di-venezia-2012)  che è alla base dell’ondata di cinema non maistream e low budget che sta conquistando i Festival di mezzo mondo come ad esempio “Dry hot Summers”, corto che ha aperto il Festival Internazionale di Ismayilyya e ha vinto il Premio Robert Bosch Stiftung per la cooperazione internazionale nella sezione Talenti della Berlinale.

Zero Production è diventato anche un hub in collaborazione con  Cimateque Alternative Film Centre, uno spazio nel centro del Cairo per “celebrare le diversità, la bellezza ed il potere del cinema” che comprende non solo proiezioni, ma anche discussioni, corsi, seminari, eventi aiuto nella produzione e post-produzione e la creazione di archivi con lo scopo di salvaguardare sia le eredità che le culture alternative sostenendo “la nostra immagine attraverso il cinema”.  Infatti Khaled ha più volte affermato che “proprio attraverso il cinema, ho davvero cominciato a incontrare il razzismo e a soffrire per gli stereotipi con cui siamo visti: da quel momento sono diventato un attore arabo, ancor prima che egiziano, e ne è derivata una serie di responsabilità”. http://cimatheque.org/

Nel frattempo gira il film “Itar el-Layl” (titolo internazionale “The Narrow frame of Midnight”), vincitore del Gran Premio al 16° Festival Nazionale del Cinema di Tangeri e menzione speciale al First French Film Festival in Olanda.

Girato da Tala Hadid con la splendida fotografia di Alexander Burov (scelto dalla regista perché proveniente dalle scuole della cinematografia russa che “possiedono una concezione del tempo filmico molto diversa dalla nostra in grado di trasferire il tempo nell'immagine”) racconta di Aicha, un’orfana in balia di Abbas e Nadia, che incrocia FOTOITARALLAILZacaria alla ricerca del fratello incappato nelle rete del fondamentalismo islamico e la sua fidanzata Judith. Il gruppo si muove dalle montagne dell’Atlante ad Istanbul, alle pianure del Kurdistan fino ad arrivare in Iraq attraversando mappe cinematografiche di passaggio ancora in bilico tra decolonizzazione e post-colonialismo, tra foto di Albert Camus, manifesti  marxista e dettagli di interni finendo con lo splendido piano sequenza in campo lungo di bambini che giocano con la grazia della leggerezza inviolati e inviolabili dalle brutture del mondo adulto: un “ristabilire la fede nel mondo” per dirla alla Deleuze.

Con Tamer El Said è produttore e attore di The Last days of the city, ideato nel 2006 e più volte interrotto e poi ripreso per la guerra in Libano, la crisi finanziaria, la guerra a Gaza e la rivoluzione in Egitto. La ricerca del cast e della troupe è durata due anni e per far partire il progetto, hanno deciso di rinunciare allo stipendio. All’inizio si pensava a quattro mesi di riprese, invece ci sono voluti quasi tre anni visto che hanno prima dovuto creare le infrastrutture che permettessero loro di girare in 4 Paesi. Di questo film presentato in concorso a Pesaro, riparleremo presto!

In the last days of the city

 
 

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