May 06, 2024 Last Updated 10:19 AM, Oct 14, 2021

SGUARDI RUSSI: IT’S NOT MY JOB (CUZAJA RABOTA) DI DENIS SABAEV

SGUARDI RUSSI

Anche quest’anno il festival di Pesaro ha dedicato una sezione ai film russi; documentari, fiction e corti d’animazione che seguono due linee intrecciate: il rapporto tra Cinema&letteratura e gli sguardi oltre la Russia per accostarsi, conoscere e far conoscere l’Altro.
Due le periferie: l’Abkazia del film Sofichka di Kira Kovalenko, una rielaborazione di un romanzo di Fazil Iskander tradotto dal russo in abkazo, e il Tagikistan di Cuzaja Rabota di Denis Sabaev (strepitosa la sequenza iniziale all’ufficio immigrazione sulle eredità sovietiche e sull’ansia di “ricongiungersi” alla capitale Mosca, la diatriba sul “tipo caucasico” e l’alternanza dell’uso della lingua tagika e russa….un film da gustare rigorosamente in lingua originale!); due i film costruiti attorno alla parola: Collector di Alexei Krasovskiy con la splendida musica di Dmitry Selipanov a punteggiare un monologo strutturato in un climax ascendente di telefonate per riscuotere debiti, per svicolare dalla moglie destinata a diventare ex e per flirtare con una veterinaria sconosciuta e God Literatury di Olga Stolpovskaja un documentario sull’arte della/nella vita e la vita dell’/nell’arte che affronta i grandi quesiti della letteratura ottocentesca, in particolare la dicotomia tradizione/modernità a partire da una casa abbattuta per far posto ad una autostrada. Il protagonista è il marito, lo scrittore Aleksandr Snegirev, vincitore del Booker's Prize russo nel 2015 e uno degli autori tradotti dalla curatrice della rassegna Giulia Marcucci in Falce senza martello un’antologia di racconti della generazione post-sovietica assalita da un senso di nostalgia per qualcosa che hanno vissuto appena e non appieno.
Sono stati anche proiettati due deliziosi cortometraggi d’animazione di Dina Velikovskaya, realizzati con oggetti e pupazzi in carta velina: Il mio strano nonno, storia di un vecchio inventore e della nipote che vivono in riva a un mare fatto con pezzi di pellicola trasparente e Il cuculo mix autobiografico tra nostalgia e senso di colpa dedicato al figlio lontano.
Molti di questi sono il risultato di tesi e saggi di diploma: Il mio strano nonno, Sofichka nato da un’intuizione di Aleksandr Sokurov con cui Kira Kovalenko ha studiato per un cinque anni e Cuzaja Rabota, saggio finale di Denis Sabaev formatosi alla scuola di documentario di Marina Razbezkina.

IT’S NOT MY JOB (CUZAJA RABOTA) DI DENIS SABAEV

Nel più assoluto e rigoroso minimalismo, senza colonna sonora né alcun commento extra-diegetico che riflette l'impronta della scuola di Marina Razbezhkina, entriamo nella vita di Faruk Gafurov che lascia moglie e figlio a Dushanbe per cercar fortuna in una periferia depressa di Mosca, spazio desolato ed ancora inconsistente (splendida la fotografia che esalta i grigi lividi delle discariche e la pioggia sulla lamiera della roulotte).
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Lì ci vivono già il padre iper-tradizionalista, i fratelli minori (un adolescente disilluso e rabbioso a cui interessa solo il calcio ed un ragazzino immerso nei videogiochi che rivendica il diritto di inciampare da solo) e la madre, che per quasi tutto il documentario si limita a lavare, cucinare e tenere la strada sgombra dalla neve finchè non si mobilita per salvare un vecchio pianoforte che i figli vorrebbero sacrificare nello scontro tra soldi e arte .
La telecamera segue per oltre sei mesi Faruk che per racimolare qualche rublo si mette a riciclare metallo mentre insegue il sogno di diventare un attore famoso in equilibrio instabile fra i genitori tradizionalisti e la volontà di integrarsi in un mondo cambiato dove nessuno lo aspetta né rispetta.
L’insolita combinazione di migrante/aspirante attore/musulmano permette al documentario di rifuggere dall’esotismo culturale sociologizzante sui migranti e di farci scoprire l’Islam del centro-Asia e la sensazione di sentirsi minoranza in un tessuto post-sovietico (ancora?) ateo: su tutte la scena in cui mentre sgozzano un montone per la festa di Eid Qurbani (da sottolineare l’uso del termine turco-iraniano invece dell’arabo Eid al Adha) vengono apostrofati dai vicini come “assassini” e “primitivi”. Un isolamento a cui rispondono compattandosi nelle preghiere di massa e nella sorpresa di riconoscersi e ritrovarsi tra musulmani


treno
Inoltre c’è un continuo rincorrersi di schermi auto-riflessivi: iPhones e telefonini su cui immortalano feste di matrimonio, videogiochi moderni e vintage recuperati dai rottami, proiettore da cui emergono foto in bianco e nero dell’infanzia nell’Urss che vengono commentate in un’alternanza tagiko/russo. Alternanza difficile da rendere nei sottotitoli ma assolutamente fondamentale nel mosaico sgretolato dell’ex impero sovietico che si percepisce anche nei casting quando Faruk viene scartato perché si cerca un “tipo ukraino”.

E alla fine torna nel posto a cui sente di appartenere: Dushanbe e la moglie a cui chiede subito di fare un altro figlio, un riflusso nel personale che chiude il cerchio rispetto alla folgorante sequenza iniziale: una serie di interviste presso l'ufficio del servizio federale di migrazione in Tagikistan per concedere o rifiutare il visto per la Russia. Una serie di primissimi piani sui più disparati motivi per migrare che arrivano tutti alla stessa conclusione: l’URSS è stata un ambiente linguistico e culturale comune e lo è ancora per tutti quelli che oggi si sentono spaesati.

Traduzione simultanea dal russo a cura di Giulia Marcucci 

THE FIRST SHOT: L'IMPERO COLPISCE ANCORA?

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E’ il passato di mio padre, non il mio:
mi commuove entrare nelle scene del suo passato
ma io non ho messo alcun passato nel mio futuro
You Yiyi

Il titolo ha un doppio significato: nel senso di “primo sparo” fa riferimento al 10 ottobre del 1911, la sollevazione di contadini conosciuta come “Rivolta di Wuchang” che ha provocato la caduta della dinastia Qing e la nascita della Repubblica cinese. Data con un doppio dieci che ha ispirato la locandina del film

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ASCOLTA LA SPIEGAZIONE DELL’IDEOGRAMMA

 

Ma First shot è anche “la prima inquadratura” e l’inquadratura iniziale, con statue fotografate e pixelate, volti plastificati del passato sottoposti a raffiche di vento, pioggia e grandine trasfigurati con un’aurea pop e a sorpresa un’Internazionale cantata a squarciagola ma in solitudine su un taxi che attraversa la città, è ricordata anche nella motivazione del premio.
“All’improvviso una tempesta spazza via il sangue di Tiananmen. La metafora è tanto grande che diventa metonimia e la metonimia è il cinema. Una cosa “e” l’altra. La “e” è fondamentale. La “e” è il cinema. Non c’è commento né finzione.”
Questa è la motivazione della giuria presieduta dal cineasta portoghese João Botelho e composta dall’attrice Valentina Carnelutti e dal regista Mario Brenta per il Premio Lino Micciché a The First Shot, l’ultimo lavoro della coppia Yan Cheng e Federico Francioni che già l’anno scorso avevano presentato nella sezione Satellite, un corto La tomba del tuffatore, che poi ha vinto la Menzione Speciale al Festival di Bellaria.

 

The First Shot nasce da un’intuizione di Yan Cheng, che dopo un viaggio in Cina si rende conto dello spaesamento dei suoi coetanei, ragazzi nati dopo il 1989, generazione senza più memoria di sé, appesa ad un passato contraddittorio di rivoluzioni tra enormi grattacieli, non luoghi, campagne incolte e rovine della Grande Muraglia: gentrification e modernizzazione che la rendono un cantiere-laboratorio disumanizzato e disumanizzante. Uno spaesamento che non è imputabile solo alla Cina (pure molto criticata seppur abbia un forte dinamismo interno, a volte non così percepito all’estero) ma uno spaesamento globale, comune ad una gioventù che vive in un mondo sempre più precario, in un ambiente sempre più inquinato e sempre meno spirituale.

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Nell’affrontare il loro stare nel presente, attraverso il loro sguardo ci si mette in ascolto e si parte in un viaggio che è una ricerca cinematografica, un documentario narrativo con attori che interpretano sé stessi senza recitare e senza alcuna messa in scena. Una delle particolarità di questo lavoro è proprio la scelta fatta dai registi di non “dirigere” gli attori ma di costruire il film sulla vicinanza alle persone, su una intimità che nasce dalla relazione, esaltata da un lavoro in coppia senza ruoli fissi o preordinati.
Tre giovani, senza radici e senza ali autentiche: Peng Haitao blogger sottoposto a censura, Liu Yixing che non accetta i cambiamenti e la loro inarrestabilità di cui non capisce la logica (tra l’altro il villaggio che si vede nel film è demolito già da un anno…) e You Yiyi che se ne è andata a studiare in Europa e che quando torna non riesce più a capire né se stessa né nessun altro. Un unico stream of consciousness, flusso di coscienza che parla attraverso frame curatissimi (i continui riflessi su vetri e pozzanghere quasi sempre ripresi dagli I-phone, nuovissima possibilità espressiva perfettamente inserita nel tessuto linguistico-narrativo…e modo per bypassare le difficoltà di girare in esterni) per tre storie che non si incrociano mai, dove la “resistenza” non assurge a livello politico e collettivo ma ognuno sceglie individualmente la sua via.

IL NAUFRAGIO DEI CANNIBALI

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La retrospettiva della 53° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro è stata dedicata allo spagnolo Pedro Aguilera, che senza aver studiato cinema (e anzi sconsigliando di farlo!) è stato assistente alla regia del messicano Carlos Reygadas nel film “Batalla en el cielo”, in corsa per la Palma d’oro al Festival di Cannes andata poi a L’enfant dei fratelli Dardenne e indicata tra i trenta film imperdibili del primo decennio del XXI secolo dalla rivista Sight&Sound (Carlos Reygadas ha poi vinto la Palma d’oro nel 2012 con il film Post Tenebras Lux). Aguilera ha esordito come regista con il lungometraggio La Influencia, presentato nella Quinzaine des Réalisateurs di Cannes nel 2007, per girare poi Naufragio nel 2011 ed il recentissimo Demonios tus ojos del 2017.
Si tratta di tre pellicole molto diverse nella forma ma che trattano tutte di naufraghi e cannibali ritratti nel momento in cui perdono la loro purezza ed innocenza, personaggi distruttivi e auto-distruttivi che vogliono disintegrarsi e sparire.
Come ha più volte argomentato Aguilera, il suo obiettivo è sperimentare mettendo la forma nata da un’intuizione al servizio del contenuto, per realizzare film sempre diversi…al contrario di Kaurismaki in cui la forma è la base.

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Così in La Influencia la telecamera fissa e i molti piani sequenze servono proprio a far concentrare lo spettatore su dettagli e cambiamenti, anche impercettibili, di un inesorabile deterioramento mostrato non come negativo ma come naturale, cornice realizzativa assolutamente sobria che enfatizza l’influenza della depressione di una madre single nella vita dei suoi figli. Gli attori non sono professionisti ed inoltre costituiscono un vero nucleo familiare nella vita reale: per questo il regista ha deciso di non svelare l’intera storia né il significato finale a Paloma che sapeva solo di un ruolo che avrebbe messo in evidenza dolore ed un senso di vulnerabilità e fragilità estrema. Questo stratagemma ha permesso di incarnare un personaggio perso, confuso, pieno di frustrazione e costantemente contraddittorio.

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Naufragio si allontana invece dal realismo sociale del sottoproletariato di un sobborgo di Madrid per aprirsi su mistica, miti arcaici, temi spiritual-animisti che rendono la pellicola una sorta di rituale simbolico e simbolista. Un migrante si ritrova sulle coste della Spagna con uno zainetto (da cui poi tirerà fuori amuleti, cristalli e pietre) e si ritrova in una serra a raccogliere pomodori (splendide le immagini in campo lungo in una sinfonia di gialli e verdi con musica ritmata) e poi in una fabbrica di esplosivi ma la pellicola si allontana subito da questo piano di realtà. Irrompe prepotente l’esoterico che abbinato al montaggio e ai tagli delle inquadrature, fanno precipitare lo spettatore in un vortice di smarrimento ed in particolare le scene finali (l’uccisione del vecchio ubriacone nel bosco e la successiva passeggiata di Robinson da solo in mezzo al grano e al sole dove brucia i soldi e si addormenta su una lapide) realizzano la vendetta di Venerdì invasore in un capovolgimento del libro di William Defoe e della sua visione colonialista, passatista e fascistoide degli indigeni.

 

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Naufragio ha innovato l’immaginario spagnolo (e non solo!) sulle migrazioni focalizzandosi sulla dimensione spiritual-antropologica e sulle responsabilità coloniali ed è stato definito dalla critica un “manifesto cannibale”. Ebbene questi tratti si ritrovano con una dirompenza ancor maggiore in Demonios tus ojos dove la scena finale è una sequenza di Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, film del 1980, crudele e lucido atto d'accusa contro la società contemporanea ed in particolare contro i mass media. Mentre all’estero ha ottenuto un enorme successo (addirittura in Giappone è secondo come incassi a ET!), in Italia, dopo la prima a Milano in cui furono imbrattate e strappate le locandine che raffiguravano la donna impalata, è stato censurato fino al 1984 e solo recentemente riabilitato dalla critica. Così nel 2003 Gordiano Lupi ha scritto: “Cannibal Holocaust infrange molti tabù cinematografici ed è uno di quei film che, con buona pace di puristi e benpensanti, danno spessore al cinema”, mentre Paolo Mereghetti nel suo dizionario del 2006 gli assegna due stelle e lo descrive “Un'operazione gelida e sgradevole, ma a suo modo abile: l'espediente del film nel film non solo avvolge di un alone inquietante da finto snuff la violenza mostrata, ma costituisce una precisa riflessione sulla prassi dei mondo movies una pietra tombale e una satira del genere. Cannibal Holocaust è un documento indiretto sul malessere dell'epoca e una tappa fondamentale per chiunque voglia riflettere sulla rappresentazione della violenza”.

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Questi fotogrammi sottolineano gli istinti più ancestrali (mangiare, fornicare, uccidere), in parte andati persi o tenuti sotto controllo e indagano cosa succede quando dialogano con la parte razionale e quando invece si sostituiscono ad essa; sequenza finale perfetta per un film che affronta e rompe il tabù principale: l’incesto e la perdita dell’innocenza morale e contemporaneamente audio-visuale. Il film infatti segue un regista preda di un’ossessione erotica per la sorellastra (la splendida Ivana Baquero, bimba ne “Il labirinto del fauno” di Guillermo del Toro) in una raffinatezza e pulizia estetica che alterna primissimi piani, buio e fasci di luce e utilizza il formato 1:33, un formato claustrofobico che esalta la frustrazione audio visuale di uno sguardo che si è saturato.

E a proposito di attori c’è anche Julio Perillán, attore feticcio già in Naufragio
Naufraghi e cannibali in una trilogia antropologica con mille espliciti riferimenti cinefili tra cui l’ammirazione per Pasolini, uno dei tanti maestri che devono essere uccisi per poter continuare a lavorare in modo creativo.

 
 

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