Apr 27, 2024 Last Updated 10:19 AM, Oct 14, 2021

56a MOSTRA 2020

Pesaro Film Fesival 2020 premiazione 696x465

Pur nell’impossibilità di quell’opera di costruzione, restituzione e fruizione di reti e riti collettivi, a cominciare dalla splendida location della Pescheria-Centro di Arti visive in cui muoversi ed interagire a piacimento fino allo sciamare anarchico e strabordante degli studenti che lo rendevano un laboratorio-palestra a schermi aperti, questa edizione extra-ordinaria del Festival di Pesaro è riuscita a restare fedele allo spirito originario e alle visioni di Nuovo Cinema, in un’onda lunga quasi distopica ben resa dallo splendido poster di Virginia Mori e dalle parole di Pedro Armocida “Abbiamo comunque cercato di organizzare un festival che fosse il più possibile “in presenza” perché pensiamo che la sala e l’arena cinematografica siano il luogo di elezione per condividere insieme un progetto culturale pieno di senso, di film, di emozioni e di sguardi”.
E in effetti i film in concorso riecheggiano le sezioni che hanno fatto la storia e la grandezza di questo Festival a cominciare dall’attenzione data al rapporto tra immagini, musica e sonorizzazione: purtroppo niente Muro del suono ma “Thick Air” di Stefano Miraglia, un collage inteso come arte plastica trasposto al cinema in un montaggio modulare la cui influenza musicale è insieme estetica ed estatica; “Kill it and Leave this town” di Mariusz Wilczynski un film d’animazione costruito sul ritmo musicale e vocale dei dialoghi che sono stati registrati prima di costruire le immagini, accompagnate anche dallo struggente blues di Tadzio Nalepa (e a riprova che la musica sia la prima ed assoluta ispirazione del regista, il suo prossimo film sarà su Tom Waits) e lo strepitoso “The nose or conspiracy of Maverick” di Andrej Khrzhanovskij, una matrioska postmoderna di tecniche di ripresa e di riferimenti visivi e musicali che spaziano tra Sostakovic, Rossini, Verdi, Glinka e Chaicovsky in una storia in tre sogni.

Le lezioni di storia di Federico Rossin (dedicate l’anno scorso al cinema femminista) hanno trovato un’eco in due bellissimi film, molto diversi tra di loro che hanno mostrato vicende contemporanee di Grecia e Brasile. Il film “Bella” di Thelyia Petraki grazie anche a scelte stilistiche ed estetiche estremamente azzeccate (in un continuo passaggio tra diverse texture materiche e formati come il Super 8, Super 16, Vhs, home video e i materiali d’archivi) ci catapulta negli anni Ottanta di una Grecia che subisce la fascinazione statunitense mentre già stanno arrivando le prime avvisaglie della crisi del capitalismo. Felipe Bragança invece continua il percorso legato al tropicalismo iniziato lo scorso anno con “Tragamme a Cabeça de Carmen M” (dove il Brasile contemporaneo era cantato come un’autopsia e non come utopia), e con “Um Animal Amarelo” vira nel realismo magico in un triplice biopic immaginario (di una famiglia, di un film e appunto del Paese stesso) e ci porta nei meandri degli ancora irrisolti legami tra Brasile, eredità coloniale e identità in divenire con una netta denuncia della deriva fascista di Bolsonaro.
Una Storia che si fa anche ancestrale e affonda in miti e leggende tutti legati all’acqua, elemento inafferrabile, proteiforme e liminale: così “Ts’onot” di Oda Kaori che amalgama diversi tipi di riprese e formati (dall’ I-phone per le riprese subacquee agli 8 mm con un lavoro sulla luminosità in post-produzione) per collegare il passato maya al presente; “Lua Vermella” dello spagnolo Lois Patino in una Galizia tutta virata sui toni del rosso, che trae ispirazione dall’Angelus di Jean-Francois Millet, popolata da streghe velate e da un Oceano-bestia che richiede sacrifici umani; “Aggregate States of Matters” di Rosa Barba dove Kronos è accumulazione ma la stratificazione materica dei ghiacciai delle Ande Peruviane (riprese in uno strepitoso 35 mm) che si stanno sciogliendo assurgono a simbolo della metamorfosi e della crisi che ne segue. E persino gli adolescenti filippini iperconnessi di “Death of Nintendo” credono alla Manananggal (alla cui figura è dedicata il primo film horror di Jose Nepomuceno del 1927) ai fantasmi e agli sciamani coi loro riti di virilità!

Ma la Storia è anche storia personale che grazie all’intermediazione artistica diventa film sì personale ma non strettamente auto-biografico anche se auto-terapeutico: oltre al già citato “Kill it and Leave this town” di Mariusz Wilczynski meta-riflessione su “come eravamo, come non siamo più, come vorremmo essere ancora” ma anche sulla forza dell’amore che trasforma i dolori in risata, “A metamorfose dos passaros” di Caterina Vasconcelos (vincitrice sia del premio Lino Miccichè che della giuria Giovani) dove i ricordi familiari e l’elaborazione dei lutti si intrecciano alla speranza e al potere consolatorio dell’accettare i propri limiti.

E come dimenticare i critofilm curati da Adriano Aprà, che ogni anno regalavano chicche d’autore come “Orson Welles The one man’s band” di Oja Kodar e Vassili Silovic, “Eisenstein’s Visual Vocabulary” di Yuri Tsivian o ancora “Rocha Que Voa” di Eryk Rocha? Ebbene, il portoghese Paulo Abreu con “O que nao se ve” ci dà una lezione di cinema mostrando la costruzione del percorso di un film, un film nascosto di cui non si era reso conto se non quando ha riguardato dopo anni le immagini: un film sul cinema, sull’amicizia, sulla necessità di accogliere l’imprevisto che apre al rapporto con tutto quello che non si vede. In ultima istanza il rapporto tra visibile e invisibile apre un dibattito più ampio sulla forma filmica: il film è solo l’oggetto completo e tangibile che esce dalla post-produzione o lo è anche il raw-material, il materiale grezzo che può contenere a sua volta in potenza altri e diversi film che però non vedremo?

Il digitale e le nuove tecniche hanno rivoluzionato il concetto di visione e di sguardo (anche) sperimentale e soprattutto se tutte le immagini sono (o possono diventare?) immagini cinematografiche: così in “Non si sazia l’occhio” di Francesco Dongiovanni, questo distico racchiude l’ossessione cinematografica e sdoppia lo schermo con immagini indipendenti che si modificano creandone altre, secondo l’idea godardiana che anche una sola immagine può essere inesauribile. “Subject to review” di Theo Antony è dedicato alla tecnologia dell’Hawk eye (il cosiddetto “occhio di falco”) nel tennis, che oltrepassa la dimensione umana e rende(rà?) superfluo il giudice di sedia se non come volto a cui addossare l’errore per non mettere in discussione un sistema basato su pixel e algoritmi. Tecnologia che apre nuove prospettive (anche) cinematografiche di visioni e mondi prima nascosti all’occhio umano. “Il n’y aura plus de nuit” di Eleonore Weber (menzione speciale della Giuria Giovani) utilizza immagini non fatte per essere viste in quanto documenti strettamente operativi (immagini riprese da droni di soldati americani e francesi in zone di guerra) per svelare e rivelare come i piloti creano la realtà a partire da quello che credono di vedere, completamente dipendenti dalla loro pulsione scopica. Il titolo si spiega alla luce della sorprendente scena finale dove la telecamera ad infrarossi arriva ad annullare la dimensione binaria antropologica notte/giorno.

Uno sguardo che affronta e si confronta con l’arte, sia in riferimento al ruolo e all’impegno dell’artista (in “Um Animal Amarello” il cineasta è considerato “un pirata che pensa di aver inventato il mare e che solo lui abbia mai navigato”….), sia in riferimento alla costruzione di inquadrature che sembrano tableaux vivant (Caterina Vasconcelos ha studiato Belle Arti ed ha un’attenzione maniacale a dettagli “dove si nascondono i misteri”, scene come quadri fiamminghi sospesi tra la verticalità materna ereditata dalle piante e l’orizzontalità del mare,ambiente naturale del padre), o ai mille riferimenti iconici di “The nose or conspiracy of Maverick” (tra cui uno spettacolare riferimento all’Urlo di Munch, ma anche a Chagal, alla celeberrima scena della carrozzina nella Corazzata Potemkin, a Oblamov, Gogol, il Maestro e Margherita di Bulgakov, sino ad affrontare il dibattito tra formalismo e realismo nella musica sovietica e la censura staliniana col suo “lasciate che i nemici abbiano paura”) e a quelli di tutti i grandi artisti polacchi (tra cui Andrzej Wajda, Krystina Janda, Zgbiniew Rybczynski) voci narranti di “Kill it and Leave this town”. Ma è soprattutto lo splendido “Un baile con Fred Abstrait seguido de una pelicula en color” di Bruno Delgado Ramo che esplora il rapporto tra linguaggio e ricerca artistica: girato in super8 è la relazione tra macchina da presa e camera da letto, entrambi spazi chiusi e bui che possono aprirsi alla luce e ai colori in una danza di immagini astratte ispirate ed alternate al testo di Xavier de Maistre “Viaggio intorno alla mia camera”, un caleidoscopio da ricostruire in un finale che rimanda ai “Soliti Sospetti”.

Particolarmente rilevante in questo momento storico è stata poi la proiezione di film italiani in Piazza come viatico di un loro passaggio in sala: il corto “Ape Regina” in collaborazione con Emergency, incontro tra il dialetto di Elsa, apicoltrice e le parole smozzicate di Amin (Kallil Kone, già visto in “Fiore Gemello” di Laura Luchetti) che si capiscono e si proteggono l’un l’altra; la presentazione di “Rosa Pietra Stella”, microcosmo femminile di esistenze e resistenze a Portici, e due film molto diversi in cui ci sono sconfinamenti e contaminazioni tra il linguaggio cinematografico e quello teatrale: “Il terremoto di Vanja: looking for Checov” dove Vinicio Marchioni racconta le crepe dell’Italia attraverso i temi di Checov portando il terremoto davanti a chi l’ha vissuto davvero e “Il caso Braibanti” (vincitore del premio del Pubblico) “una vita che è stata un’ininterrotta contestazione” che unisce cinema, teatro, storia, archivio, memoria, ricordi personali e denuncia in un legame con la splendida sigla di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti dove la tripla PPP, ha un triplo significato: omaggia Pier Paolo Pasoliini, il primissimo piano dell’inquadratura cinematografica e riecheggia il più che pianissimo degli spartiti musicali alludendo “alla solitudine di chi rimane sveglio nella coscienza di un cattivo presagio” mentre cadono i tre chiodi.
Infine attesissima come ogni anno non poteva mancare la monografia, dedicata quest’anno a Giuliano Montaldo a cura di Pedro Armocida e Caterina Taricano corredata da una splendida intervista di David Grieco che potete vedere a questo link https://1drv.ms/v/s!Aqz4ofVD5YDghedh-HlBKD8vZqd2Gw?e=ALyR4h

 

ROSA PIETRA STELLA: DIO E' MORTO A PORTICI (MA PURE PATRIA E FAMIGLIA NON SE LA PASSANO BENE)

rosa pietra stella 2020 marcello sannino

Come diceva Rossellini per “Europa ’51”,
non esiste nessun problema semplicemente “sociale”,
i problemi sono tutti problemi umani.
Marcello Sannino, regista

Presentato al 49° Festival di Rotterdam, al Giffoni Film Festival-Sezione Generator 18+ e all’ultimo Festival di Pesaro, è uscito nelle sale il 27 agosto ROSA PIETRA STELLA (titolo che omaggia la canzone “Carmela” di Sergio Bruni), il primo lungometraggio di finzione di Marcello Sannino i cui precedenti lavori sono stati premiati in diversi festival: ad esempio Corde del 2010 ha fatto incetta di premi tra cui il Premio speciale della Giuria al 27° Torino Film Festival e il Premio Speciale della Giuria “Casa Rossa Doc” Miglior Documentario al 28° Bellaria Film Festival.

 

Come ribadito più volte dal regista stesso: “Aldilà della riflessione sul mondo, ciò che da sempre mi interessa nel mio lavoro è la persona: in questo caso una donna spinta da una necessità assoluta che porta dentro di sé un sogno ancora confuso ma presente”.

E l’incipit, prima dei titoli di testa, ce la mostra nuda di spalle mentre fa la modella in una scuola d’arte ma subito vediamo riflesso il suo sguardo di sfida dritto e sfrontato in camera, poi in un pub dove confessa all’amica di essersi vergognata a stare nuda (unica ammissione di fragilità) ma che poi ha iniziato a pensare ai suoi problemi e si è dimenticata di tutto il resto ed infine sfatta e addormentata su un bus notturno. In questo incipit c’è tutta Carmela, la sua “cazzimma” (ascolta il ritratto fatto da Ivana Lotito AUDIO Min 8.20-11.19) e tutta la sua bulimia nel fagocitare le esperienze per provare a riempire il vuoto che ha dentro ((ascolta il ritratto fatto da Ivana Lotito AUDIO Min 16.12- 18.06).

rosa pietra e stella

La mattina successiva suona il campanello e Carmela scopre che dopo tre giorni il loro piccolo nucleo familiare tutto al femminile verrà sfrattato: ma se la figlia Maria e la madre Anna possono andare dalla sorella Nunzia (diplomata, regolarmente sposata, cattolica praticante e con un lavoro fisso!), per Carmela “lì” non c’è posto.
“Lì” madre, sorella e cognato stigmatizzano il suo modo di affrontare la maternità (la madre le dice: “Tu fai solo guai: Maria invece è diversa, vuole studiare”), la preside ne contesta i metodi educativi (anzi, inorridisce quando sente Carmela dire a Maria -che ha mandato all’ospedale un compagno- “hai fatto bene a farti rispettare”, e la figlia ribattere “non è vero: io ho sbagliato” in un capovolgimento di ruoli che segna una svolta nel loro rapporto), i servizi sociali le stanno col fiato sul collo (intensa la scena in cui Maria mangia il gattò in una vaschetta di plastica sotto il cipiglio severo dell’assistente sociale) e il vicinato sentenzia lapidario “non ha saputo tenersi la figlia”. Insomma un mondo di istituzioni fallimentari o implose, nascoste dietro facciate perbeniste e parametri burocratici dove persino il prete elargisce aiuti in base a criteri di pratica religiosa e si rifiuta di dare a Carmela una casa (sfitta!) perché “non l’ha mai vista a Messa”.
Ma Carmela continua indomata e indomabile a cercare il suo posto in una sopravvivenza quotidiana dove proletario fa rima con precario: i lavori che si conquista in una lotta che non è più di classe ma è diventata lotta interna tra marginali e clandestini (falsa testimone per conto di un avvocato corrotto, spacciatrice di permessi di soggiorno agli immigrati irregolari- con una preferenza per gli algerini perché sono (ancora?!?) considerati terroristi e quindi sono costretti a pagare di più) esulano persino da valutazioni etiche e legali, un lusso irraggiungibile per chi non ha nè diritti né visibilità. (ascolta il rapporto con il film PARASITE nelle parole del regista AUDIO MIN 14.39-15.49)

ROSAPIETRASTELLA poster

La storia del film è ispirata alla vita di una persone reale Susanna, amica di gioventù del regista (ascolta come è nata l’idea del film AUDIO Min 3.20 – 6.15 ) che però non è stata coinvolta direttamente nella lavorazione (ascolta cosa dice a questo proposito Ivana Lotito AUDIO Min 18.10- 19) ma il regista ha citato come fonti dirette di ispirazione molte altre figure femminili cinematografiche: “Adua e le compagne di Antonio Pietrangeli, Mouchette di Robert Bresson, Mamma Roma di Pasolini e la Rosetta dei fratelli Dardenne”. E Fabrizio Rongione, l’attore italo-belga che interpreta Tareq ha lavorato in moltissimi film dei fratelli Dardenne (“Rosetta”, “L’Enfant”, “Il matrimonio di Lorna”, “Il ragazzo con la bicicletta”, “Due giorni, una notte” e “La ragazza senza nome”) oltre che in “Diaz - Don't Clean Up This Blood” di Daniele Vicari e ne “Il primo re” di Matteo Rovere. Maria è Ludovica Nasti la Lila de “L’amica geniale”, ruolo e film per cui ha vinto moltissimi premi tra cui il Best Talent all'Italian Movie Award di New York, il Premio Virna Lisi come migliore attrice dell'anno e il Premio Attrice Rivelazione ai Sassi d'Oro di Matera.
Carmela è interpretata da Ivana Lotito, fortissimamente cercata e voluta dal regista (Ascolta come è arrivata a interpretare questo ruolo AUDIO Min 6.30-7.50), dopo averla vista in Gomorra (è Azzurra, la moglie di Genny Savastano); ascolta a questo proposito l’opinione di Ivana sul respiro cinematografico del film rispetto alle serie tv (AUDIO Min 19.50-fine)

L’altra grande protagonista del film è Portici, di cui percorriamo il dedalo di vicoli in vespa (vespa che capovolge e stravolge l’immagine patinata di Audrey Hepburn ma anche quella di sociologia urbana di Nanni Moretti) in un fluire di immagini e suoni che mostra lo spaesamento del microcosmo che li popola (già filmato nel precedente corto del regista “Porta Capuana”), spaesamento amplificato anche dalla scelta di girare tutto il film con una luce fredda, invernale, così lontana dall’esotismo che ammanta spesso l’immaginario su Napoli. (E a proposito di come rappresentare e comunicare queste realtà sfuggendo dagli e agli stereotipi ricordo che BRONX FILM -già Figli del Bronx- ha co-prodotto il lungometraggio “Napoli, Napoli, Napoli” per la regia di Abel Ferrara, presentato come Evento speciale fuori concorso alla 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia).
Lo spaesamento è quello che pervade anche e soprattutto Tareq “stanco di essere un immigrato anche se sono qui da 20 anni”,un piccolo imprenditore, onesto e ligio alle regole (compresa quella di indossare il casco!) che prova a prendersi cura di Carmela (quando la accompagna in moschea davanti all’imam pronuncia, solenne come un giuramento, “sono io il responsabile”) ma che non riesce a diventare visibile e a “guadagnarsi” il diritto a una vita normale. E così l’unica scena girata con una luce calda è quella in cui, nella casa del prete occupata abusivamente, Maria chiede a Tareq “L’Algeria è in Africa?” e lui risponde “Purtroppo si” (e pensare che Pasolini in “Frammento alla morte” invocava “Africa, unica mia alternativa!”) e subito dopo “L’Algeria è diversa da Napoli?”… “Purtroppo no” ; quando arriva Carmela e i tre si mettono a ballare musica rai algerina, dal registro irriverente e cosmopolita, barlume di possibilità impossibile da afferrare. Ma - per continuare a citare Pasolini- così come “Cristo è un sottoproletario che va con i sottoproletari”, anche Tareq e Carmela sono sottoproletari destinati a essere confinati in una giungla di “homo homini lupus” dove la ragione, le leggi e le regole non hanno cittadinanza. E così sgomberata dalla casa canonica, l’unica possibilità di avere un contratto d’affitto regolare è quello di prostituirsi (con una scelta etica ed estetica assolutamente da apprezzare la scena è coperta dal nero)…senza neppure sapere se l’otterrà. Ma sicuramente lotterà.
Questo film è uscito nelle sale il 27 agosto: ascolta qui la produttrice Antonella Di Nocera sulla scelta del passaggio in sala (AUDIO Min 11.51-14)

Ascolta la presentazione del film alla 56a Mostra del Pesaro Film Festival 2020. Domande a cura di Pedro Armocida a Ivana Lotito (protagonista), Marcello Sannino (regista) e Antonella Di Nocera (produttrice).

Scheda tecnica
ROSA PIETRA STELLA
REGIA: Marcello Sannino
SOGGETTO: Marcello Sannino, Guido Lombardi, Massimiliano Virgilio, Giorgio Caruso

SCENEGGIATURA: Marcello Sannino, Guido Lombardi, Giorgio Caruso

ATTORI: IVANA LOTITO (Carmela), LUDOVICA NASTI (Maria), FABRIZIO RONGIONE (Tarek), IMMA PIRO (Anna), FRANCESCA ROMANA BERGAMO (Valeria), VALENTINA CURATOLI (Nunzia), NIAMH MC CANN (Fabiana), GIGI SAVOIA (Biberon), ANNA REDI (Preside), DAVID POWER (Eugenio), CIRO DAMIANO (Avvocato Postiglione), PIETRO IULIANO (Gennaro)

CASTING: Adele Gallo, Massimiliano Pacifico

DURATA: 94 min
DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA: Alessandro Abate

MONTAGGIO: Giogiò Franchini

SCENOGRAFIA : Antonio Farina

COSTUMI: Rossella Aprea

MUSICHE: Riccardo Veno

SUONO: Daniele Maraniello

PRODOTTO DA : Antonella Di Nocera, Gaetano Di Vaio e Giovanna Crispino, Pier Francesco Aiello

DISTRIBUZIONE: PFA Films

UNA PRODUZIONE: Parallelo 41 Produzioni, Bronx Film, PFA Films con Rai Cinema

CON IL CONTRIBUTO: MIBACT-DG Cinema e Audiovisivo, Regione Campania (POC 2014- 2020), Film Commission Regione Campania

 
 

Acquista on line

Orson Welles e la new Hollywood. Il caso di «The other side of the wind»

Orson Welles Studer
Alle origini di «Quarto potere». «Too much Johnson»: il film perduto di Orson Welles
alle origini di quarto potere
"Olympia" (con DVD) di Massimiliano Studer

Olympia

I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi. Utilizzando il sito web Formacinema, accetti l'utilizzo dei cookies. Cookie Policy