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FRANCOPHRENIA: L’ALFA E L’OMEGA DELLO SPETTACOLO

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francophreniaFRANCOPHRENIA (OR: DON’T KILL ME,I KNOW WHERE THE BABY IS) di James Franco. USA 2012, 69’, colore, HDcam, ver. orig. sott. ita.

Sceneggiatura: Paul Felten, Ian Olds; Fotografia: Doug Chamberlain; Montaggio: Ian Olds; Musica; Joe DeNardo, Kevin Doria; Produttore: Vince Jolivette, Miles Levy; Produzione: Rabbit Bandini Productions

"Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale: non realizza la filosofia, filosofizza la realtà" Guy Debord

"Con la proliferazione degli schermi, l’identità del cinema, che ne fu la prima incarnazione, diventa incerta. E il cinema non può rispondere che con la creatività" Gilles Lipovetsky

"Il più logico degli esteti ottocenteschi, Mallarmé, diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in una foto" Susan Sontag
"Se fai il pane a casa, sei un panettiere ma se lo fai in un museo, diventa arte" Marina Abramovich

Francophrenia, interamente girato sul set della telenovela General Hospital, è un progetto di sperimentazione audio-visiva dove James Franco attore, meta-interpreta Franco, un serial killer artista in un gioco di specchi paradossale dove le personalità si confondono e si sovrappongono. Un thriller sullo stato psichico di un attore-divo che si colloca sulla scia di altre sperimentazioni cinematografiche americane come David Holzman's Diary di Jim McBride o Comingfrancophrenia2 tff630 Apart di Moses Milton Ginsburg recentemente riproposti al Whitney Museum of American Art. Con un intricato gioco di rimandi meta testuali e di voci fuori campo (geniale la seduta psicanalitica con le figurine sulla porta dei bagni a cui dà voce Olds), le linee narrative si fondono fra loro diventando estensioni transmediali legati dai diversi tipi di schermi. Computer, videocamere, televisioni, cellulari, videogiochi, telecamere di sorveglianza: una proliferazione multifunzionale che rende tutto cinema o per usare l’espressione di Lipovetsky, una “Schermocrazia” in cui “essere” è “essere connessi”. E sono molteplici le videocamere e i telefonini che entrano all’interno delle scene, quindi schermi che riprendono schermi e schermi incorniciati da altri schermi come nelle scene iniziali in cui James Franco, attorniato dalle sue foto, viene fotografato e ripreso dai fans e dalle telecamere del film da mille angolature diverse. E vi sono anche processioni di dettagli che sezionano gli attori mettendone in mostra sbadigli, occhiaie, sputacchi, rughe spesso con luci sparate sul viso e a volte con l’uso del controluce, in una profanazione simbolica del fisico che accentua la prossimità emotiva. Infatti in questa ibridazione lo star system perde la sua aurea e invita ad avvicinarsi attraverso il rito collettivo del selfie, (una sorta di “personal-media” gestibile individualmente che si integra coi mass-media) un discorso diretto attraverso le immagini immediatamente fruibile in un continuo l’hic et nunc. Dal “ ça a été” con cui Roland Barthes definiva la fotografia in quanto garante della veridicità del soggetto rispetto al dipinto, si passa oggi al “c’est maintenant”: quello che si vede nella foto sta succedendo adesso e sta succedendo al soggetto stesso che fa la foto; oggetto e soggetto vengono così a coincidere in un nuovo spazio intermedio tra scena e retroscena. Nel “Panopticon rovesciato” anche il divo James Franco si racconta in prima persona, sottraendosi alla narrazione dei media: ecco quindi che Francophrenia assume i tratti di un’autoriflessione ironica ed inquietante sui meccanismi dello spettacolo. “Sono tutto solo in questa macchina” considera James Franco mentre Franco sta prendendo il sopravvento.

E ad amplificare la dissonanza tra James Franco e Franco c’è un montaggio audio-visivo non in simultanea; il sonoro alterna musiche ripetitive ad un silenzio totale mentre alcune scene sono declinate su vetro ed acciaio dai riflessi freddi e poi irrompono colori alterati, pop e psichedelici che giocano con la dimensione onirica perchè “ciò che vedete non è ciò che avrete”. Grande importanza ha anche l’uso della luce in particolare per evidenziare con un effetto a contrasto quel tempio del loisir dove il resto del cast, in piedi con sguardi fissi nel vuoto perennemente in attesa, è la cornice del mondo costruito da forze invisibili e malvagie che fanno sperimentare passo passo a Franco un’estasi in senso ejsenstejniano, cioè un ex-tasis, un “uscire da sé” che implica “necessariamente il passaggio a qualcos’altro, di qualitativamente diverso o contrario” (Sergej M. Ejzenstein (1947), La natura non indifferente  Marsilio, Venezia 1981 pag.30).
Francophrenia è girato al Museo d’Arte Contemporanea in una puntata speciale (mai andata in onda) di General Hospital, cioè una telenovela pomeridiana e per evidenziare di essere anche un meta-evento mediale che si innesta nella routine della programmazione televisiva trasforma alcune scene della telenovela in animazioni in bianco e nero sullo stile dei fumetti creando degli intermezzi molto ironici virati in un bianco ottico abbagliante.
E nella macchina iper-moderna dove tutto è intrattenimento e spettacolarizzazione, il montaggio diventa ininfluente: se tutto è arte (e Franco pontifica: “è questo il fascino dell’arte: è aperta a qualsiasi interpretazione”) basta mettere sequenze a caso anche banali o ridicole…così James Franco propone di inserire scene porno-gay ma la sua provocazione non viene (ac)colta. Pornografia che, secondo l’analisi di Breton, mettendo in scena l’o-sceno (cioè quello che sta fuori dalla scena) è la metafora dell’illusione della comunicazione.
Francophrenia si configura dunque come un ritratto intriso di humour nero del retroscena dello spettacolo che sgretola il concetto stesso di documentario dissolvendone il soggetto proprio mentre lo innesta nella ripetizione seriale per eccellenza, ossia la telenovela. Un’eccezionale immagine-manifesto dell’ipermodernità che sovverte le leggi del mercato e della produzione in serie delle merci ponendosi la questione: se lo spettacolo è un’industria chi è l’operaio e chi il prodotto?

Note sugli autori

Ian Olds and James Franco

 

Ian Olds e James Franco

Ian Olds: regista di “Occupation Dreamland” su Falluja e “The Fixer: The Taking of Ajmal Naqshbandi”, successo al Festival di Rotterdam nel 2009 e vincitore dei Festival di Pesaro e di Madrid. Racconta la storia di Ajmal Naqshbandi un pashtun afghano, fixer del giornalista Christian Parenti, The Nation e di Daniele Mastrogiacomo. Rapito insieme a quest’ultimo è stato decapitato dai suoi rapitori poche settimane dopo la liberazione del giornalista italiano. Un film e una storia che ha destato così tanta impressione da farlo diventare un simbolo al punto tale che quando James Nachtwey ha vinto per la quinta volta il premio Robert Capa, l’ha dedicato a Naqshbandi.

James Franco: modello, attore, regista, sceneggiatore, laureato in regia alla New York University's Tisch School of the Arts, in scrittura creativa al Brooklyn College, dottorando alla Yale University e scrittore. Tra i diversi libri c’è “The Dangerous Book Four Boys”, un libro d’arte che contiene immagini e testi della personale di James Franco presentata nel 2010 dalla Clocktower Gallery di New York e nel 2011 dalla Peres Projects di Berlino che propone un’installazione del Capitano Kirk e Spock di Star Treck a letto insieme.

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